Warning: Undefined array key -1 in /customers/c/5/3/inpuntadipennablog.it/httpd.www/wp-includes/post-template.php on line 330 Il terrorista - In Punta di Penna Blog
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Il terrorista

Il terrorista

 

Il giorno in cui mi portarono via, ero certo che non avrei mai più rivisto il sorriso di Elisa.

Quella mattina all’aeroporto di Roma stavo aggrappato a lei che correva da una parte all’altra, schivando centinaia di valige e sbattendo contro viaggiatori che partivano e arrivavano da ogni parte del mondo. I suoi genitori la richiamavano alzando la voce, non volevano perderla in mezzo a tutto quel caos. Girovagammo un po’ per negozi. Negli specchi vedevo riflesso il suo volto sorridente, non stava nella pelle per quel viaggio tanto atteso. Avevano preparato tutto meticolosamente con il padre, nulla era stato lasciato al caso, in valigia avevano messo tutto il necessario e anch’io, che solitamente viaggiavo leggero, quel giorno ero veramente pesante. Dopo aver visitato alcuni negozi, Elisa si accorse della mia pesantezza, chiese a suo padre di fermarsi per sedersi e riposare un po’. Venne accontenta, cosi ci sistemammo in una panchina uno a fianco all’altro. La madre, voleva acquistare un cappello intonato ai suoi biondi capelli, diceva di voler fare bella figura in terra straniera. Invitò il marito a seguirla per darle qualche consiglio e per pagare il conto e s’incamminarono davanti a noi. Restammo lì a guardarli mentre la madre provava cappelli e il padre sbuffava. Quel giorno anche Elisa portava un cappello da baseball rosso e, come sempre quando viaggiava, indossava tuta e scarpe da ginnastica, le piaceva stare comoda in aereo. I genitori, non si erano accorti dell’ora e dopo pochi minuti arrivarono sventolando i biglietti, senza aver acquistato nulla. Lo speaker stava annunciando l’apertura dell’imbarco per il nostro volo. Il padre passò sotto il varco facendo suonare l’apparecchio perché aveva con sé qualcosa di metallico. A un attento esame si rivelò essere la cintura dei pantaloni, tornò indietro, posò la cintura e passò nuovamente. Questa volta filò tutto liscio. La madre, che era già dall’altra parte, lo riprese e i due iniziarono a discutere animatamente. Intanto arrivò anche il nostro turno. Passammo quasi in contemporanea su due macchine diverse, Elisa non ebbe problemi, invece quella dove passai io iniziò a suonare. Venni fatto ripassare più volte ma c’era qualcosa che non andava, lo notai dagli sguardi preoccupati che gli addetti lanciavo verso lo schermo. Restai fermo in attesa delle verifiche, sicuro di non aver nulla d’illegale con me. Accorse il responsabile alla sicurezza dell’aeroporto, che controllò più volte lo scanner indicando anche lui qualcosa. Elisa vide la scena e si diresse nella mia direzione. In breve tempo arrivarono anche i poliziotti. Anch’essi controllarono i monitor e iniziarono a consultarsi tra loro. Mandarono via gli addetti, con l’ordine di chiudere la fila passeggeri e non far passare nessuno. Uno di loro, vestito in abiti civili, estrasse dalla tasca una radiolina e chiese l’intervento immediato degli artificieri. Elisa urlò di lasciarmi stare. I genitori, richiamati dalle grida della figlia, si accorsero di quanto stava accadendo e si avvicinarono precipitosamente. Le guardie che mi circondavano, prontamente bloccarono prima la ragazza poi i genitori, intimandogli di indietreggiare. Elisa provò a divincolarsi per raggiungermi, ma la presa dei poliziotti le impediva ogni movimento, cosi scoppiò in lacrime. L’uomo in abiti civili ordinò di condurre via i genitori. I due seguirono le guardie senza opporre resistenza. Anche Elisa venne allontanata, con l’uso della forza. La trascinarono via lungo il corridoio in mezzo alla folla di curiosi, stipata davanti al gate. La sentivo urlare con la voce rotta dal pianto, le sue mani rivolte verso me come se volesse abbracciarmi e portarmi via con lei. Restai fermo senza muovermi, attorno a me un cordone di poliziotti non faceva avvicinare nessuno, la zona venne transennata e delimitata con del nastro bianco e rosso, con su scritto non oltrepassare. Arrivarono quattro persone vestite completamente in nero con caschi integrali e si posizionarono attorno a me. Finalmente gli artificieri, disse un poliziotto. Venni controllato da capo a piedi. I quattro dopo un breve consulto con l’uomo in borghese, andarono via. Una guardia, la più robusta, mi sollevò e mi condusse lungo il corridoio. Giunti alla centrale di polizia dell’aeroporto venni scaraventato sul tavolo. Dentro la stanza c’erano tre poliziotti, tutti in abiti civili, uno di loro prese una torcia e la puntò verso me, quella luce non mi permise di vedere più nulla, tutto apparve offuscato. Sentivo il rumore della plastica che schioccava sulla pelle, compresi che si stavano mettendo i guanti in lattice. Delle mani iniziarono a perquisirmi dappertutto fuori e dentro di me. Ogni cosa che avevo venne posta in una scatola. Ovviamente non trovarono nulla, cosi iniziarono a strattonarmi e rivoltarmi a testa in giù. Uno dei poliziotti, disse: portatelo di sotto insieme agli altri in attesa che qualcuno venga a riprenderlo. Venni affidato, nuovamente, al poliziotto che mi aveva portato lì, questa volta mi sollevò e stringendomi forte contro il suo petto. Salimmo sull’ascensore direzione seminterrato. Arrivati al piano, ci incamminammo in un corridoio stretto e pieno di porte, illuminato dalla luce dei neon. La guardia aprì una porta blindata e mi scaraventò a terra, in uno stanzino buio. Il puzzo di muffa rendeva l’aria irrespirabile e dalle parti gocciolava acqua che rendeva umido il pavimento.
«Ecco un altro terrorista» disse una voce nel buio.
«Chi siete?».
«Poveretto non sa ancora cosa lo aspetta» disse un’altra voce.
«Non sono un terrorista».
«Rilassati, resterai qui per molto tempo come tutti noi» disse una terza voce.
«Cosa volete da me? Tra poco sarò di nuovo a casa c’è stato un errore».
Dopo la mia esclamazione tutti iniziarono a ridere, dal forte suono mi resi conto che in quella stanza eravamo tantissimi.

Il tempo passava nel buio totale, l’unico spiraglio di luce era quello che penetrava dal buco della serratura. Le condizioni in quello stanzino erano estreme, c’era poco spazio ed eravamo in troppi, ammassati uno addosso all’altro, dormivamo sul pavimento umido e non c’era riscaldamento. Col passare del tempo, iniziai a far conoscenza con alcuni compagni di reclusione vicini a me, i quali mi raccontarono le loro esperienze, alcuni di loro stavano lì da molto tempo, abbandonati a se stessi dai propri cari. Le giornate erano monotone e il tempo sembrava non scorrere, finché, un giorno la porta si spalancò. Un forte bagliore penetrò con forza e dopo tanti giorni di oscurità ebbe lo stesso effetto che si prova quando si guarda il sole per alcuni istanti. La vista si annebbiò impedendomi di vedere bene, notai due sagome che varcarono la soglia e iniziarono a cercare. Il loro obiettivo ero io. Venni perso e trasportato in un altro ufficio, dove mi poggiarono sopra un tavolo e mi avvolsero in un sacco nero, poi via di nuovo verso un’altra stanza. Soltanto dopo, quando il motore si avviò, compresi che si trattava di un furgone. Non ero solo in quello spazio stretto, attorno a me udivo dei lamenti c’era altri disperati come me. Iniziò un viaggio lunghissimo, passarono ore, forse giorni, il portellone si apriva e si chiude in continuazione. A ogni fermata i due uomini entravano e alcuni dei miei compagni di viaggio, svanivano nel nulla. Poi venne il mio turno, il portellone si spalancò e uno dei due mi afferrò con forza.
Appena fuori dal furgone, l’altro uomo lesse l’indirizzo di casa mia. Suonarono il campanello e il cancello lentamente si aprì. I passi dei due sul ghiaino del vialetto di casa, suonavano come una marcia trionfale. Il rumore del sacco che si strappava era la colonna sonora della mia liberà ritrovata. Eccolo, finalmente, davanti a me il sorriso di Elisa. Mi strinse forte tra le sue braccia poi si rivolse ai miei ultimi due carcerieri «Grazie per avermi riportato il mio zaino» disse, mentre chiudeva la porta di casa.

Lorenzo Tonarelli

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