Warning: Undefined array key -1 in /customers/c/5/3/inpuntadipennablog.it/httpd.www/wp-includes/post-template.php on line 330 Il viaggio della vergogna - In Punta di Penna Blog
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Il viaggio della vergogna

Il viaggio della vergogna

Ogni percorso è una scoperta, un viaggio. Ogni cambiamento di direzione può solo accrescere le nostre conoscenze, il nostro sapere. Mia moglie non era d’accordo, almeno per quanto riguardava la sua persona.
“Hai sbagliato strada!”
Lo disse così, come se non conoscessi a memoria il suo corpo, come se non sapesse più leggere la bussola delle mie voglie. Avevo risalito lentamente con il mio desiderio in mano i suoi glutei rotondi e sodi e avevo bussato, sperando rispondesse “Eccomi!”. Aveva risposto “Hai sbagliato strada!”. Quand’è che i nostri desideri avevano cominciato a prendere percorsi così diversi? Tra Michael e Clarissa? Tra l’allattamento del piccolo e la festa per il diciottesimo di nostra figlia? Per quel pomeriggio ormai l’attimo era sfumato. Lo sapeva lei, lo vedevo io, lo sentivamo entrambi. Almeno rimaneva un po’ di sintonia nel sentirsi a disagio. Claudia era ancora molto bella, calda, spiritosa, ma sempre più spesso ne perdevo il desiderio. Questo però il prete non l’aveva detto. Si era dimenticato di specificare, oltre alle formule “in ricchezza e povertà e in salute e malattia”, quella “in passione e apatia”. Godevo giornalmente della presenza di mia moglie, delle sue cure, del suo corpo, ma avevo smesso di attenderla, di desiderarla.
Fu così che tutto cominciò, per gioco. Accesi il computer e quando Wadoo, nota chat di incontri online, mi chiamò, fui io a rispondere “Eccomi!”. Fu un “petit de calage”, avrebbe detto Jacques Lacan. Un piccolo spostamento, una deviazione nel percorso ordinario di quella goccia che era la mia vita di allora. Visionai a caso un po’ di profili, poi mi cadde l’attenzione su uno in particolare. Il suo nickname era Madame Fiammetta e fu colpa sua se il mio fuoco riprese a muoversi. Il fuoco, infatti, non è bello solo quando brucia, ma perché si muove. Lei mi smosse. Ero diventato un fungo ricolmo di noia e Madame divenne la mia domanda. Il mio viaggio.
Nickname: Madame Fiammetta
Età: 25
Interessi: Ballare sul mondo. Ascoltare musica Glam Metal.
Su di me: “Socchiusi gli occhi, sto supina nel trifoglio e vedo un quadrifoglio che non raccoglierò…”. I love Axl Rose.
Citazione: La scelta è solo tua. Non si vive per accontentare gli altri. (cit.).
Come foto aveva messo quella del particolare della sua bocca rossa che mordeva un bouquet di peperoncini. Bocca d’attrice, lingua di strega. La trovai subito una foto eccitante, la trovai una promessa. Io mentii fin dall’inizio. Scrissi che facevo il musicista, nello specifico il creatore di colonne sonore per videogiochi. Mi tolsi vent’anni e misi la foto di quando avevo realmente quell’età, la barba e suonavo il basso. A stento mi riconoscevo. Mix perfetto tra un nerd e un musicista rock. Per la scelta del nickname, invece, fui molto combattuto, volevo qualcosa che potesse servire da legame. Feci una rapida ricerca in Google e trovai un nome di peperoncino che mi colpì immediatamente. Clover. Per lei fui Chilli Clover. Adesso stava a lei abboccare e lo fece, scrivendomi.
“Ciao”.
Stavo ancora fissando il “ciao” di Madame Fiammetta, quando la voce di mia figlia che mi salutava dall’ingresso mi fece istintivamente chiudere il Pc. Il senso di colpa durò poco, quello di trasgressione ricominciò a bruciarmi in bocca come un habanero. Fiammetta amava i gatti, adorava il cibo etnico e piccante e preferiva l’Hair o Glam Metal al Grunge. Scrisse addirittura “Maledetto Cobain e quei cazzo di Nirvana”. Su quel pensiero musicale, così fuori dal coro per la sua età e per il fatto di essere una donna, per poco non ebbi un’erezione. Claudia, mia moglie, impazziva per Cobain. Senza nemmeno pensarci, senza ragionare su quanto potessi sembrare banale, un giorno le chiesi il perché dei peperoncini. Forse non avrebbe notato la mia ingenuità, contavo sull’inesperienza della sua giovane età. Mi sbagliavo.
“Scontato” mi scrisse e per i tre mesi successivi feci di tutto per farla ricredere, cercando di capirla nel modo in cui voleva essere capita e di catturarla nel modo in cui voleva che fosse fatto. Parlavamo del mio finto lavoro, della nostra passione comune per i Living Color, i Motley Crue, i Mettallica e i Poison. Le chiesi come mai preferisse loro al Grunge di Cobain e mi rispose, come faceva sempre, con un’altra domanda “Tra bella vita, party, macchine veloci, amore, sesso, divertimento, gioia di vivere o depressione, solitudine, sofferenza, rabbia, frustrazione, tristezza, ribellione, tu cosa sceglieresti?”. Chiara e definitiva. Io intanto continuavo a postare foto del mio “io adolescente”, lei si mostrava a me come in un puzzle: un pezzo alla volta.
Ieri la schiena.
Oggi un piede.
Il giorno dopo la fossetta del giugulo.
Si fotografava sempre con un peperoncino. Quando lo stringeva tra i denti, quando lo serrava tra le dita dei piedi in un erotico intreccio. A volte inanellava in una collana con lo spago decine di peperoncini di diverso colore e mi inviava la foto del suo collo di fiamma.
Fiammetta!
Non era il suo vero nome, non aveva intenzione di dirmelo. Era il nome di un peperoncino così come i suoi nickname successivi: Madame Janette, Kalipso e Alba Chiara. Tutti richiami a quel frutto piccante che era la nostra nascente passione. Io non mi tirai indietro, non mi feci abbattere dalla sua inaspettata eteronimia e per lei fui Chilli Clover, Alba Rossa, Cheyenne, Giove e per ultimo Carolina Reaper. Le scrissi che mi faceva sentire come un Reaper, un falciatore, nel nostro caso di sogni e che volevo di più.
Claudia c’aveva provato a darmi quel qualcosa in più senza, però, capire come fare. Era troppo impantanata nel non sentirsi più quella di un tempo. Troppo bloccata in un bozzolo di commiserazione per lasciarsi andare alle voglie che l’avevano fatta essere la donna che avevo desiderato avere accanto per tutta la vita. Cercava di arrivare a me attraverso le parole, attraverso il mio cervello, quando l’unica parte di me ancora viva, pulsante, si trovava a sud della mia cintura. Era brutale accorgersi di essere una bestia in preda a semplici istinti, ma era così che mi sentivo. Mia moglie era diventata insapore e io avevo solo bisogno di un gusto deciso, piccante. Clarissa, mia figlia, aveva tutti i vizi odiosi di sua madre. Il primo era quello di non bussare. Mai. Quel giorno per poco non mi colse con le mani nel sacco o nel pacco, mentre nel mio studio scorrevo sul computer le foto della mia amica virtuale, salvate in una cartella denominata “Bollette Enel/Gas”.
“Papà hai 30 euro?”
Per poco non caddi dalla sedia nel tentativo di non farmi beccare.
“Che cazzo, Clarissa! Tua madre non ti ha insegnato a bussare?”
Lei non si era accorta di niente, aveva solo avuto conferma che suo padre, da un pezzo a questa parte, era diventato molto più stronzo e irascibile. Si era sentita ferita, come altre volte in quei tre mesi e come risposta si era tirata dietro la porta con una tale forza che il rumore era risuonato tanto come un “Fanculo papà e grazie di niente!”.
Perché doveva avere una figlia così dannatamente adolescente?
Perché non poteva avere l’età di Michael, quando il problema più grande si riduceva a quale tartaruga ninja farsi regalare per Natale?
Ma soprattutto perché non poteva essere un maschio?
“Ci sei?”
La chat brillò come un’ancora di salvezza.
“Sì” digitai in fretta.
“Ho voglia di farti impazzire”
Io non aspettavo altro da tre mesi. Ovviamente lei aveva voglia di quel ragazzo trentenne e musicista che fingevo di essere, non di uno psichiatra quarantenne, sposato e in crisi matrimoniale, ma nella mia testa quello era solo un particolare scomodo che faticavo a mettere a fuoco.
“Guarda cos’ho trovato!” E mi inviò la foto di Mr. Erotico un peperoncino dalla curiosa forma fallica.
“Accendi la webcam” le scrissi.
“Non ce l’ho, sono con il cellulare!”
“Vuoi ancora farmi impazzire?”
“Sì” ribadì.
“Voglio che ti faccia una foto, mentre lo tieni in bocca…”
Di lei non conoscevo ancora gli occhi, i capelli, il naso, il volto, la figura nella sua interezza.
Solo pezzi.
I piedi.
Le mani.
I fianchi.
Il collo.
E adesso il dettaglio di quelle labbra rosse che avvolgevano quel frutto di fuoco, il mio frutto di fuoco. Sentivo la sua saliva bagnarmi anche se non era lì. Sentivo i suoi incisivi far attenzione a non mordermi e le sue mani serrate con decisone intorno al mio fusto, proprio come piaceva a me. Mi sbottonai i pantaloni e cominciai a toccarmi, ma volevo che lei fosse mia complice anche se non poteva esserlo fisicamente. Presi il cellulare e cominciai a filmarmi, poi le inviai il video su Whatsapp con questa didascalia “Guarda cosa mi fai. Sei il mio fuoco, la mia fiamma, il mio sapore”. Lei mi rispose “Mi hai fatto bagnare”.
Vero o no che fosse, la cosa mi eccitò ancora di più e continuai a scriverle.
“Ti vorrei qui!”
“Io dentro di me!”
Intanto la mia mano andava su e giù ritmicamente. Lei sempre più eccitante, io sempre più duro. Poi lo fece. Mi inviò la foto del suo seno rotondo, perfetto, una coppa di champagne dal quale bere, con la scritta: “Voglio vederti venire!”.
Io persi il controllo. Ripresi a filmarmi, il video che andava, la mia mano pure. Essere spinti dal mistero, dal suo velo, con un desiderio pulsante tra le mani, alimentato da mesi di parole, immagini e dalla brace della sua mancanza fisica.
Rosso.
Fuoco.
Peperoncini.
Labbra.
Seno.
Sesso.
Eccolo lì: l’Apice. Arrivò in un’esplosione sulla tastiera, sulla scrivania, sulle cartelle dei miei pazienti, poveri loro. Le inviai anche quel video e ricominciai a respirare.
“Vieniiiiii, è pronto in tavola!”
Claudia.
Maledetto il suo tempismo del cazzo! Digitai in fretta un ultimo messaggio “Sei fantastica! Stasera voglio vederti, tutta! Mandami una foto!”. Chiusi il computer e cominciai ad attendere il momento in cui avrei finalmente dato un volto alla mia passione.
A tavola mi sentivo a disagio, sporco. Mio figlio giocava con i suoi robots e parlava della partita di calcio del pomeriggio. Claudia sembrava più magra, forse era il nuovo taglio di capelli che non avevo neppure notato.
“Clarissa?”
“Si è fermata da Giulia. Studiano insieme per il compito in classe di domani”
“Meglio così”. Facevo domande, mangiavo, fingevo di essere presente, ma l’unica cosa a cui pensavo davvero era il mio appuntamento del dopocena. Come un ladro lasciai la cena ancor prima del caffè e mi rinchiusi nello studio. Tutto era di nuovo in ordine, pulito, normale, solo una macchietta ostinata sulla cartella di Ugo De Magistris. Per il resto avevo fatto un buon lavoro, nessuno avrebbe potuto sospettare nulla. Le foto di Claudia e i ragazzi svettavano sulla scrivania e dall’iride azzurra dei loro occhi sembravano dirmi “Fai schifo!”. Le ignorai, aprii il computer e attesi. Lei era ancora offline. Cominciai a temere il peggio, che avesse deciso di lasciar perdere, di chiudere. A venticinque anni poteva avere tutto, compresa una relazione reale con un uomo vero. Cosa poteva avere da me? Trasgressione, brivido e poi? Bugie?
Finalmente il pallino vicino al suo profilo divenne verde. Online. Connessa.
Vidi che stava scrivendo…
“Questa sono io!”.
La foto del suo volto si materializzò come un pugno improvviso nello stomaco, come un gancio a tradimento in pieno viso. Una manciata di peperoncino negli occhi. Ti prego non dirmelo, ti prego abbi pietà. La nausea mi avvolse in un abbraccio di vergogna. “Ti prego non farmelo…”. Il cervello si spense. Presi il portatile e lo scaraventai contro il muro in un urlo di disperazione.
Quegli occhi.
Azzurri come i miei.
I miei.
Dietro la porta il rumore di Claudia che correva a vedere cosa fosse successo.
Correva a salvarmi per l’ennesima volta, ma non c’era più niente da recuperare.
Come ci si può salvare da noi stessi?
La disperazione si concretizzò infine come un boccone amaro. Tutti i dolori di una vita, tutto il non senso di quel triste epilogo. Quel viso, a cui io stesso avevo dato vita diciotto anni fa, mi stava sbattendo in faccia nella sua interezza un nome che aveva il sapore del sangue, di una passione maledetta, di un viaggio finito male, di una bruciante sconfitta: Clarissa!

Aida

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